Chelsea Hotel

Un ultimo giorno tra i parati e le lenzuola diventati quasi la stessa cosa, una superficie con sopra storie e annotazioni, voci di menu, suoni strappati al rumore continuo del tempo, e poi i versi. Chi è in ascolto dall’altra parte, nella sequenza di stanze numerate, ha certamente una sua mancanza. Da questo lato della città immaginaria i soggiorni durano un tempo indefinito, non si capisce quale sia la casa e quale la strada. Prima la sveglia, poi lo stordimento e ora la luce, che mostra polvere in sospensione, bicchieri e fantasmi. 

C’è un messaggio per lei– mi dice una voce al telefono. 

Passo a prenderlo– rispondo. 

Posso riferire. 

Prego. 

“Addio”.

Era una donna? 

Era con un uomo.

Nient’altro?

Nient’altro. 

Ha un recapito?

No.

Ho visto persone, più che altro le ho sentite, nelle ore notturne in cui non riuscivo a dormire. Ho capito solo ora che si trattasse di compagnia, non ero solo, c’erano giacenze di racconti e di trascorsi disseminate tra mobili e tappeti, pagine di vecchi giornali, calici con una macchia. Tutto sotto gli occhi dei quadri. Non so di chi siano le sigarette che riempiono quasi del tutto il pacchetto sul tavolo di vetro. Andrei via, mentre le assi e l’intonaco depongono le armi e sembrano riposare, stremate dai cigolii e dai passi consumati nei pochi metri, che pure debbono rispondere a infinite noie, a ogni genere di tristezza e immobilità. Alle coppie che si costringono a forza in una camera e in un rito. È tutto un rito da queste parti, per noi, e non solo. È così dovunque, ma qui di più. 

Ho con me i biglietti di queste settimane. Ho tutti gli scontrini, i souvenir, alcune carte con brevi frasi appuntate. In giro ci sono foto in bianco e nero, un vetro colorato e un rossetto consumato fino alla fine. Tracce di fumo, macchie e fili di stoffa. Dove sei stato, mi chiedo, non ricordo di essere mai veramente uscito. Sono rimasto dei mesi nella 109. Forse è la 107. Oggi non muore nessuno, nessun corpo nudo, nessun litigio con armi da taglio, niente finestre rotte o voci dal basso che richiamano attenzione in piena notte. È quasi mezzogiorno, due ore almeno dopo il tempo di uscita. Check-in-check-out-check… 

Suona bene. Di là dal candore c’è un concerto, qualcuno russa, poi viene il silenzio. Vado via, ma non mi arrendo. Non prendo niente, non rubo niente che non possa conservare in una trascrizione. Lascio qualcosa, piuttosto, la valigia è vuota, ciò che serve è altrove, tra qualche tempo ricorderò quello che ora si mostra sparso e confuso, tra i piani di un palazzo che un giorno era un bel posto e adesso non esiste più.

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Diario immaginario da “Stories From The Rooms”, mostra fotografica tenuta a palazzo Fruscione, Salerno, ispirata al Chelsea Hotel di New York, chiusa il 5 settembre scorso.